Michele Trizio, "Cenere del risveglio", Marco Saya Edizioni, 2024


Cammino direzione piega.
Essere la mano che chiede
un nome tra verdi persiane.
Forse questa casa sarà illusoria
ma resta come un alone cuneiforme
sulle mura, luogo di contese
nello sciame di voci, materno
e mattinale. La stagione
si trasmuta in evento che
ci salva e ci allontana.
Talvolta, nell’eclissi, cerchiamo
l’ebbrezza di un saluto.

*

Dici che ciò che ci resta alla fine
sono solo gli odori, e forse poco altro,
gli altri colori sulle superfici vive
mentre noi ci spegniamo piano piano.
E invece infinite volte un profumo
richiama la memoria al suo compito:
preservare le crepe, quelle amate,
che fanno tormento del ricordo.
Manchi, e per questo sei ovunque,
nella materia primordiale imprimi
le forme plastiche del congedo.
Posso solo vivere accanto alla trama
dei vetri, tagliarmi con il sorriso
tuo, impercettibile, staccarmi dal corpo
nella scena del giorno e amare questo
esistere in cui né si va né si rimane.

*

Qui da noi gli anni sfilano via,
il fondo non appare mai agli occhi
e impilate s’accumulano queste immote
giornate di durata e d’insistenza mescolate.
Il sonno del giacinto è aberrante,
ma alla fine tutto ritornerà all’essenza,
anche queste parvenze disanimate.
La memoria è per pochi istanti eterna
mentre infinito è il tempo nei luoghi
segreti degli uccelli migratori, l’attesa
senza oggetto che dice “arrendetevi,
questo cielo è di noi vinti”, del nostro
farci vanto dell’abbandono.

*

Per te sono bassi i cieli
e inarcate le cuciture estive
i giardini seccando arrischiano
in pena. Le albe prendono
congedo, cambiano il loro segno,
si tingono di ardesia e sesamo.
Armenia, terra di dolci eresie,
di imperfetti dualismi semantici,
incagliati tra i monti monasteri
cantano le tue litanie pomeridiane
non di parola afflitte, ma assegnate,
rammendate per le mani
imposte per immergersi, tornare
piene del tuo battesimo.

*

Scavi nella geografia delle retine
dove il vuoto di quieti autunni
non parla, tace in dolce rinvio.
A novembre l’ultima latitudine
sanguina lenta sull’erba indifesa.
C’è qui una mescolanza di aldilà
che parla e poi si spacca
in rossa litania, animale, Dio,
il farsi carne del miele sulle labbra
e ancora scarpe, azzurro, verità,
destino.

*

Dici che i nomi sono paradiso
di menzogna, che si dispongono
ad essere ingiusti. La parola che
sola può salvarci è tutta intorno
a questa terra spaccata e riposa
sconosciuta nella casa del padre.

*

A tratti senti la pietà nel suo farsi
conoscenza, movimento, relazione
di verità tra i filari e la faggeta.
Mi racconti dell’assenza sulle tue
pietre. Le stringi per prestare loro
il volto. Nere le vigilie
ti appartengono, chiedono
di mettere a nudo una dolce
tormenta – e passano, passano.
Soccombere significa assediare
gli oleandri in autostrada.

*

Mi chiedi poi da dove
si levi l’orizzonte di questa
mancanza, quali fortezze
attendano dall’altra parte,
quali ghirlande porteremo
nella tormenta dell’esilio.
Racconti sempre che
una storia è l’espiazione di
un’infanzia avvolta in colline.
Non so chi spari sui nostri
cuori, né so affrontare l’attesa
colma di conoscenza,
ma quando apri le mani
al vento i frammenti di ciò
che resta fioriscono ancora
tra i sassi e la ghiaia.

*

Michele Trizio (Bari, 1979) insegna Storia della Filosofia Antica e Medievale presso l’Università degli Studi di Bari. Cenere del risveglio è il suo libro d’esordio.





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