"Fresco di stampa": Antonio Bux, "Poesie", Marco Saya Edizioni, 2024


Erba

Prendo il ciuffo di un’erba che tu ami
quello vissuto sulla fronte di tua nonna
la sera quando ti cresceva tra le coperte
lo raccolgo per te che non sei qui
per te che sei tra le coperte degli alberi
sotto la terra onesta o forse di lato
all’albero che è ora tua nonna
così insieme a lei compi proprio i miei passi
li unisci ai passi degli altri, quelli scordati
dove un’orma è per sempre
dove un’orma è mia madre che sale
come un albero ad accarezzarmi i capelli
e mio padre, e il tuo, e il padre di tutti
qui dove prendo il ciuffo di un’erba che tu sei
li rivedo ancora una volta, rivedo la mia vita
e le vite di chi siamo stati, ora che sono ciuffi
e così anche io, sotto la terra, dov’ero
sento di essere stato amato.

*

Primavera

Inverno era dire ieri, cielo verde
e tocco sul legno, una forma del prato,
o una mano quasi, a essere erba.

E anche le stagioni che spostano
e passano, tornano qui, a indicare
foglie di noi, e mini radici.

Così oggi è ancora dire, poter misurare
al collo la postura d’aria, mentre mani
invisibili sfiorano, mentre è vento

e chiama a sé i corpi, quei morti
chiari, stesi tra i germogli. Tu li vedi? Io
ne sento il profumo amico.

*

La città della mia vita

È chiara, Foggia, e grigia. Ha una scia
di rumore che muove il silenzio.
E io non so se la gente che vedo esiste,
non so se i colori che spingono questi
all’esistenza siano poi gli stessi
del cielo annullato. Io non so davvero
chi siano questi messaggi, chi sono
i messaggeri che ogni giorno moltiplicano
le giornate e le fanno smaniose.
Ma c’è Foggia, ed è un muro di secoli
che parla, e un sottofondo di uomini
arrampicati alle viscere. C’è Foggia e ci sono
gli occhi addormentati degli amici e le mosse
del fuoco e del vento scapestrato; c’è
Foggia e ci sono le piazze questi vicoli
ciechi e gli odori di una misericordia
viva nostra di noi, come essere stati.
Sarà bellissimo ricordare, quando il mio
cadavere verrà scavato, come su questa
stessa strada io stesso abbia creduto
possibile il tempo e la città della mia vita.

*

Nei miei sogni ero un faro
sepolto in cielo. Così liquido
da emergere dal volto al cuore
quella luce calma fuori e a mille
luci murate dentro. Ma io lo so
i sogni sono annegamento
e per tornare al mondo devo
nuotare ancora. Oh sole vivente
nel tuo spazio, perché sento mani
e occhi, perché ti vedo? Ora che ho
settanta chili e un metro di misura
vorrei tornare vero dentro le tue parole:
che nei miei organi smussati è solo tempo
il buco tuo senza di te, il varco in Dio.

*

L’inverno si avvera come un credo.
Finalmente puoi domandare al freddo
perché vi somigliate, perché un tempo
emanavi calore oltre il tuo sguardo
e ora sei pietra scagliata da più mani.

Come essere persona e statua insieme
animale senza sesso ma che ama.
Oh inverno, le case sono bianche
e dentro quelle quanti come me
piegati in due.

*

Stagni

Nascere fa fiume l’abisso.
Ristagno di solitudine.
Crescere acqua
poi corpo, è flusso che divora
le onde. Non vi naviga
la vita, né gli esseri passano
quella pioggia, i fumi
ancora chiari lo sanno,
la notte non dura
e gli alberi dormono poco,
per fortuna
le stelle sono distratte
mangerebbero il lordo
della terra,
loro così lucenti
di lucci mai toccati,
loro così simili alla morte
sono protezione universale
ma il mondo deteriora, dal suo nucleo
veniamo fuori noi
diluviati.

*

Come è diventato sentiero tutto questo spegnersi
da soli sempre in cima a una grotta e lì osservare
il cielo più basso di tutti, quel cielo solo parlato
la comune visione di un abisso che insegna
ma pochi ne hanno memoria, si cade e si sogna
un alfabeto costante a protezione, una specie di legge
carnale di disobbedire a questo spirito che volerebbe
sopra le teste di tutti quelli che si chiedono
perché sono qui se non ho occhi, se vedo male
il sentiero invisibile, la luce più folta di me
perché a me devo la mia scomparsa se ho giorni
a iosa e pensieri diversi, perché è diventato mistero
questo mistero, la cima più piccola che insegna l’altezza.

*

Due volte si viene al mondo
dice un ramo oltre la notte.

Per frusciare, sapere il vento
soffrire, come l’uomo distante
soffre del suo vivere amore.

Due volte accade questo,
un nascere che sa di baci,
oltre la morte sapersi perdere.

Il vento come ramo per la notte
sospinge un corpo nuovo
e quest’amore che da solo soffia.

Due volte soltanto, e poi nuovamente.

Sarà due volte per durare
e per non dire all’uomo

chi è che lo ama, chi muove
dopo il suo corpo la vita.

Sarà due volte, ma forse è solo una.

*

Anche qui l’incompleto giace – piove
sulfureo tramite ovali raggi, un airone
in cerca dei nidi, dei nuovi venuti
sotto la sabbia – questo gregge
arreso di colpo. Che non vale
un peso morto la misura
di vedere com’è sazia un’ombra
lasciata oltre la duna spaziale nella rotta
solitaria ancora, verso altro destino.
Ma anche in una chiusa stiva del mare
perle vogliono offrire al sole
il distendersi di Dio la divina cecità
parziale sulla terra – là dove le onde
battono senza ragione e l’alga
è abisso nel suo riaffiorare – aria vuole
sottosuolo cieco e nero, non più respiro;
così l’acqua vede, se dopo nasce
un’isola distante, anche per azzurro
completarsi, una nave aperta
in un deserto d’uomo. E l’idea evapora.

*

Antonio Bux (Foggia, 1982) è autore ed editor. Dal 2012 a oggi ha pubblicato, compresa questa edizione, trentatré volumi di poesia e ha curato la pubblicazione di oltre sessanta opere altrui. Con Poesie l’autore compendia il frutto della sua ricerca rivisitando il proprio lavoro e licenziandone la summa definitiva.





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