"Fresco di stampa": Giuseppe Cavaleri, "I Corpi Santi", Interno Poesia, 2024


La linea 93 dell’ATM unisce Corvetto, Milano Sud, e Lambrate, un tempo comune a sé, adesso estremità est della città. Nel tragitto riqualificazione e degrado si alternano al cielo, che sbuca di tanto in tanto dai palazzi.

A Corvetto due signore polacche
parlano e l’alba cresce tra le mani.
Non c’è per loro troppo freddo, anzi
le rivedi che tornano bambine,
con il bianco che entra negli occhi
e non altro che la neve per mesi.

In via Celoria sale una coppia.
Sbronzi, sono un riflesso che si scinde,
sbatte e si compone su un cartellone
dove un tizio salta su ali di carta,
circondato da un neon bianco che dice:
“They believe in rock! And you?”

La 93 è una ferita che raccoglie
la fame che taglia tutta Milano.
Nei minuti incerti tra buio e luce
i contorni sfumano e lo spazio
si fa una giostra di vite che migra
e prende la consistenza della luce,
che trema sugli oggetti e poi scompare.

Tu invece sembri esistere solo ora
mentre dormi e la luce si raduna
in una linea che ti mitraglia
schiena e gambe, ma risparmia i capelli.
Poi ti svegli e fingo di non guardarti
mentre ti agiti, stendi le gambe
e ti porti le mani sul viso, dichiarando
il peso, lo spazio che occupi nel mondo.

A Lambrate in estate le zanzare
le trovavi dovunque: nei bassi,
nelle cascine, appese ai platani.
In inverno invece solo nebbia,
che si divorava binari e ossa.
Oggi si trova poco del passato.
Hanno tirato su una farmacia,
un cohousing e i tram si perdono
tra le foglie secche mentre il Sanctuary
dispensa orge e droghe a prezzi sostenuti.

I pensieri si mischiano spesso alla terra,
si fanno le storie che compongono la Storia,
poi corpi che cadono su altri corpi,
fili che si legano ad altri fili.
Finché una mattina si trema
e il freddo appostato sugli usci
buca i portoni, ingannando la materia:
giorni si portano dietro altri giorni.

*

I Corpi Santi riunivamo i borghi rurali fuori le mura spagnole che delimitavano Milano. Istituiti a fine ‘700, vennero annessi definitivamente alla città dopo l’Unità. Il nome deriva dalla leggenda che vuole le reliquie dei Re Magi impantanarsi in queste zone, costringendo il vescovo di Milano del tempo a edificare una chiesa nel punto all’epoca più periferico della città, l’attuale Basilica di Sant’Eustorgio.

In tutte le zone fuori le Mura
dopo l’Unità facevano così.
Prendevano un carnaio popolare,
tiravano giù tegole e persone.
Poi montavano su dei bei viali:
tanta luce, tanto spazio, piazze
per i tram, carri, vetrine e negozi.
Per i freschi eroi del nuovo regno
viali e platani con le targhe ai rondò,
strade piene di polvere e fermento.
Ai Corpi Santi per i primi mesi
non sapevano nemmeno come starci
le persone, come riempirle le banchine.
Il verde della campagna trasformato
prima in piena periferia operosa:
ciminiere, officine, l’alba
dell’industrializzazione, il sudore,
i polmoni asciugati dalle vernici.
La città gli aveva mangiato i campi,
le cascine e le rogge rimaste negli occhi
assieme all’odore di terra smossa.
Adesso tutto è diventato centro, arto
lastricato di uffici, bravi ragazzi
e spazi di co-working. Inglesismi
usati per saltare sempre avanti,
senza stare mai fermi, con i piedi
nel futuro e il culo nel passato.

Più di centocinquanta anni dopo,
anche noi, che siamo nati altrove,
come tutti da queste parti ormai,
siamo finiti qui ai Corpi Santi.
Ci siamo dati appuntamento
davanti la scuola elementare
e scendiamo da Porta Romana
confondendoci tra gli impiegati
che vanno al Carrefour dopo lavoro.
Ci stiamo vedendo per lasciarci,
e ci ripetiamo che non siamo pronti
mentre il vento ci spinge le foglie
addosso e pestarle è il modo che trovo
per non guardarti quando ti parlo.
Poi ti saluto, sento netto il taglio
della catena e mi sembra che la scena
diventi per un attimo un’immagine,
con la gente che scorre e si ferma,
impreca al telefono, tira fuori
le buste della spesa, le carte fedeltà.
Fiori oppure spine strappate al tempo
certi momenti che attraversiamo.

*

Forse siamo quello che non sappiamo:
le mani che non sanno dove andare,
i piedi che si fermano agli incroci.

Forse siamo le parole non dette:
il ragazzo che aspetta e si mangia
le unghie nei minuti dell’attesa,
oppure il silenzio che corre
nelle auto, che sale dalle radio.

Forse siamo fiumi che si perdono,
avanzando spaventosi nella valle.
Oppure siamo i polsi poggiati,
le labbra che cercano aria e si aprono,
i pensieri che non ci danno tregua,
l’ombra che ci cresce accanto sui muri.

Forse siamo la forra, lo strapiombo,
l’acqua che passa, disgrega, trascina,
il tronco piegato che non si spezza.
Ciò che si placa, ciò che si disperde,
ciò che ostinato persiste nei giorni.

Forse siamo la signora che appare,
il signore che spunta dal portone,
avvia il motorino, che svolta e muore.

Forse siamo sentieri, ricordi,
cellule che nascono e poi crepano
sotto le nuvole di una Storia
che non conserva memoria, riflesso
di un cielo che anche il finito contiene.

*

Mareneve
La Mareneve è la strada che collega la parte nord orientale dell’Etna con i paesi costieri. I catanesi la imboccano quando hanno bisogno di guardare le cose dall’alto e per ricordarsi di dove si trovano nel mondo.

Muoiono le nuvole che guardi,
vanno lontano e si sfanno
mentre rimane l’ombra allungata
di un sole sfibrato che si posa.
Crescere non è parola che esiste.
Esiste la lava, la pioggia, la morte,
l’alito dei vecchi che già l’annuncia;
noi quasi sembriamo cercarla
mentre saliamo per la provinciale,
tra le vallate dove il fuoco si fa pietra
e le urla muoiono nei crateri.

Qui veniamo con le moto,
con il fiato mozzato dalle curve
e l’aria fresca mandata dalle foglie,
l’ossigeno pulito come neve.
Mareneve e pensi a un salto,
un vuoto affilato tra vetta e acqua,
la nostra città di barocco e sangue
e sudore, Sant’Agata e le puttane
e i cortili, sale cemento passione,
una mistura di gloria e cassonetti.
Mareneve e vai alla vista dai rifugi,
il cercare, tra i tanti, il tuo palazzo,
pensando con il sorriso di chi perde:
è dove si nasce la misura del mondo.

*

A novembre andavamo al cimitero.
Lì, mio padre parlava con le tombe.
Parlava con il nonno e con un amico
morto il giorno di sant’Alfio a trent’anni.
Con il tempo si sono aggiunti altri.
Parenti che avevo visto aggrapparsi
alla vita come al corrimano delle scale,
di cui avevo ammirato le mani
ruvide che mi mostravano i cedri,
oppure che avevo visto al lavoro:
la fresatura scandita dalle bestemmie.
Bisogna crederci nelle parole
oppure non crederci per nulla
per pensare che arrivano ai morti,
superando la terra, la materia,
ignorando i resti, la decomposizione,
la carne divorata da umido e vermi.
Ma lasciate andare così al vento,
le sillabe sbattevano sulle pietre.
Forse da qui, a giorni alterni,
l’idea che si perdano nell’aria
o che si fissino come il marmo.
Il linguaggio sono i vivi in fiamme.

*

A sera noi umani torniamo agli alveari,
ricomponiamo i quadri, i modi,
il tempo che c’avanza dai nostri ruoli.
L’umido ci scivola sui marciapiedi
mentre le facciate abbracciano le ringhiere,
i portoni come soglie, come barriere.
Ma natura è l’ingranaggio del mondo
che nulla ti spiega e muta ci sputa.
Un tempo la cercavamo nei boschi,
sul durame bagnato dall’autunno.
Una volta però- era tardi e la stanchezza
cedeva già dalle palpebre alla sclera –
in penombra carne chiamava carne,
una finestra aspettava un ritorno,
dei gatti si leccavano in giardino.

Scagliati in un soggetto più grande,
siamo parte in un colosso che ingloba.
Cerchiamo il perché dell’essere luogo,
ma sono deittici gli unici indizi:
qui e ora, dove siamo stati gettati.

*

Giuseppe Cavaleri è nato a Catania il 1994. Si è laureato in Filologia moderna presso l’Università degli studi di Catania. Diversi suoi componimenti sono apparsi in alcune riviste e blog online. Per il blog Alma Poesia cura la rubrica "Le contaminazioni di Alma". Attualmente vive e lavora a Milano. I Corpi Santi è la sua opera prima pubblicata in virtù del "Premio Ritratti di Poesia. Si stampi".





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